Su cavalli e… superstizione, caso e destino

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Il cavaliere è faber fortunae suae? Si potrebbe rispondere a questa domanda semplicemente dicendo: “Certo, purché non soggiaccia all’idea del destino”. Ma a quale idea di destino non bisogna sottostare, e per quali ragioni?
Superstizioni e credenze popolari, diffusissime nel passato, sono tutt’oggi ancora presenti e operative nel nostro quotidiano. Di certo il mondo equestre non ne esce indenne, forse perché gli esseri umani che diversamente ne fanno parte si abituano presto ad aspettarsi l’inaspettato (talvolta veramente imprevedibile) in compagnia dei cavalli, e dunque cercano in tutti i modi (non solo razionali) di allontanare l’alta dose di rischio di incidenti di varia natura, per sé ma anche e soprattutto per il proprio cavallo. E proprio quest’ultimo, animale messaggero tra i mondi, è centrale anche per la superstizione del sentire comune: anche i non addetti al settore sanno che il ferro di cavallo è da tempo immemore considerato tra i talismani più universali e potenti, probabilmente perché costituito in ferro, metallo a cui sono associate buone proprietà contro potenze nefaste e avverse. Si usava (e si usa?) appendere un ferro di cavallo all’uscio di casa per proteggere dal malocchio la famiglia che vi abitava (con le estremità del ferro rivolte verso l’alto, diversamente sembra porti sfortuna).
Più volte ci è capitato di osservare come una certa dose di scaramanzia pervada l’ambiente equestre, specie in alcuni rituali pre-gara che molti cavalieri e amazzoni, anche affermati, non smettono di praticare ogni volta. Oltre a veri e propri riti privati e personali, talvota pure “estremi” – c’è addirittura chi non gareggia se è venerdì 17 – capita spesso di vedere attiva anche una rigorosa pratica di tabù sul linguaggio, frasi e parole che proprio non si possono pronunciare, perché portano sfortuna a se stessi e/o al cavallo. Inoltre, “porta male” cambiare nome al proprio equino, mai dire quanto l’abbiamo pagato, guai ad indossare o servirsi di cose nuove in gara e/o fare in numero pari le treccine alla criniera; mai augurare “buona fortuna”, a chi sta per iniziare una competizione, ecc. ecc.
Detto così fa sorridere, ma vale la pena approfondire un po’ la questione. In fin dei conti, chiediamoci: fino a che punto credere troppo ad un “destino scritto” o alla sfortuna pronta a colpire in ogni momento (da questa convinzione scaturiscono i rituali scaramantici) può inficiare o addirittura compromettere la propria vita, anche equestre? Il cavaliere atleta crede maggiormente alla sorte o nelle capacità proprie e del suo cavallo?
In un senso generale, risolversi per l’una o per l’altra determinazione sembra consegnarci ad un particolare ed opposto “destino”, ovvero a modalità differenti di compimento o realizzazione della propria vita, non solo equestre. In un senso molto generale, si nominò “destino” quella divinità che i pagani immaginavano sovrastasse anche gli dèi.
Estremizzando e banalizzando, potremmo dire che chi ascrive ciò che accade nella propria vita al destino opta per la credenza in una sorte come visione legata ad un implacabile darsi degli eventi, come se essi fossero “già scritti”. Pertanto, egli consegna la propria esistenza ad una sorta di rassegnata passività: di fronte ad un destino già determinato, l’uomo infatti non può nulla. Chi invece, dal lato opposto, è risoluto nel credere che non esista un destino e che la vita sia essenzialmente governata dal caso, riassume e in sé concretizza l’idea di un uomo facitore e fruitore del proprio destino (ricorderemo l’antico motto homo faber fortunae suae, – Faber est suae quisque fortunae, ascrivibile a Appio C. Cieco), compimento di colui che è stato capace di cogliere tutte le possibili occasioni propizie per la propria piena realizzazione. “Caso” deriva dal latino cadere, ed indica ogni fatto, azione o cosa che accade, che sia accaduta o stia per accadere.
È pur sempre vero che difficilmente l’uomo riesce a consegnare per intero la propria esistenza al puro caso (figuriamoci il cavaliere!), come libertà assoluta ma cieca; continuiamo a mantenere intatta la sensazione di avere una specifica strada da intraprendere, senza tuttavia mai possedere in modo assoluto la chiara coscienza della sua destinazione. L’abitudine a ciò che è divenuto dà ai più l’illusione di un’intenzione, di un progetto, di un principio di necessità che in qualche modo imponga di compiere un certo percorso o determinati cicli della propria esistenza, secondo quella che, a volte, “col senno di poi”, appare come una concatenazione determinata precedentemente: al contempo, in ognuno di noi, vi è sempre un momento in cui l’io scopre che la sua vita pare obbedire a fini differenti da quelli prefissati, in un certo qual modo indipendenti da noi.
Tuttavia, l’operatività di un troppo forte senso del destino dev’essere sempre tenuta sotto controllo: infatti, «il destino viene scritto nel momento in cui si compie, e non prima» (J. Monod). Allora, che fare? Si dovrebbe arrivare a coincidere con la propria vita, si dovrebbe voler coincidere col proprio destino. La vera grande forza di molti grandi atleti sta proprio nella loro capacità di coincidenza con se stessi, coincidenza tra i propri obiettivi e la loro realizzazione.
Avere un destino significa dunque non abbandonarsi ad esso, ma crearlo, inventarlo, nell’assunzione piena dell’eccezionalità della propria condizione: la nostra capacità di separarci da un percorso che sembra già scritto, senza abbandonarci ad una vita che scelga per noi, è l’unica vera prova che si è in grado di padroneggiare la propria sorte e quindi di compiere il proprio destino; così intesa, l’idea di destino schiude ad un originario spazio di libertà per ogni individuo, senza predeterminazioni, mediante l’infinita gamma delle possibilità fornite da ogni esistenza. In tal modo, tutte le “strane coincidenze” che incontreremo nella nostra vita, risultanti dall’intersezione di eventi casuali totalmente indipendenti l’uno dall’altro, non smetteranno mai di farci credere di avere un destino, e di essere sulla strada buona per compierlo. Di fronte alle difficoltà, valga sempre il monito di W.B. Yeats: Cast a cold Eye / On Life, on Death. / Horseman, pass by.
Avere un destino significa dunque non abbandonarsi ad esso, ma crearlo, inventarlo, nell’assunzione piena dell’eccezionalità della propria condizione: la nostra capacità di separarci da un percorso che sembra già scritto, senza abbandonarci ad una vita che scelga per noi, è l’unica vera prova che si è in grado di padroneggiare la propria sorte e quindi di compiere il proprio destino; così intesa, l’idea di destino schiude ad un originario spazio di libertà per ogni individuo, senza predeterminazioni, mediante l’infinita gamma delle possibilità fornite da ogni esistenza. In tal modo, tutte le “strane coincidenze” che incontreremo nella nostra vita, risultanti dall’intersezione di eventi casuali totalmente indipendenti l’uno dall’altro, non smetteranno mai di farci credere di avere un destino, e di essere sulla strada buona per compierlo. Di fronte alle difficoltà, valga sempre il monito di W.B. Yeats: Cast a cold Eye / On Life, on Death. / Horseman, pass by.
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