Possiamo fare molto meglio di così – Confessioni di un cavaliere fallito

22 luglio 2020
Di recente ho ascoltato le considerazioni dell’amico, e maestro, Francesco Vedani, in merito al “caso Kocher”, sul quale anche io mi sono espresso qualche settimana fa (+ info – clicca qui).
Nel corso della sua analisi Francesco tocca un tema che ritengo fondamentale, e sul quale vorrei condividere con voi alcune mie riflessioni.
Ad un certo punto del suo discorso, Francesco si chiede: è giusto approfittare dei cavalli per guadagnare i soldi necessari a vivere? Da questa domanda nascono una serie di considerazioni, che riassumo brevemente qui di seguito:
L’equitazione è un’arte meravigliosa. I cavalli sono nostri compagni di avventura, compagni di vita, potremmo anche dire. Ci insegnano tante cose interessanti e, se riusciamo a capirli nel modo giusto, ci insegnano a vivere. Abbandonare del tutto l’arte equestre significa privarci di questa possibilità. E significa anche condannare i cavalli a diventare solo un piatto di portata sulla nostra tavola, destino già condiviso da molti altri animali. Questo perché, per l’essere umano, un animale ha senso di stare al mondo solo se serve a qualcosa, se ha un’utilità, uno scopo che ci interessa.
Quindi tirarsi indietro, disinteressarsi dell’equitazione per paura di abusare dei cavalli, non è il metodo giusto per dare una dignità a questi animali.
Quest’ultima considerazione, ovviamente, mi ha toccato nel profondo. E condivido molto di quanto ha detto Francesco: vi ho già parlato, in un articolo precedente, del fatto che questo è proprio il rischio che sento di correre. Il rischio, cioè, “di evitare totalmente qualsiasi relazione con i cavalli per paura di poter fare ancora loro del male”. In quello stesso articolo (+ info: clicca qui) dicevo anche che sento il desiderio di trovare una modalità di interazione con i cavalli che possa essere soddisfacente per entrambi (non solo per noi); e che, per poterci riuscire, a mio avviso bisogna “essere disposti a mettere in discussione molti di quelli che oggi vengono dai più considerati alla stregua di dogmi intoccabili, rispetto ai quali non c’è alternativa”. Ecco, uno di questi dogmi a mio avviso lo ha individuato proprio Francesco: il cavallo deve servire a qualcosa.
Qualche tempo fa ho avuto modo di discutere a lungo con una amica, che ringrazio, proprio su questo stesso tema. Vi riporto alcuni dei passaggi fondamentali che esprimono il suo pensiero:
Il cavallo non è più un animale selvatico, ma domestico; non è libero, è legato da un patto con l’uomo. Il patto dice: tu mi nutri e mi proteggi, e io in cambio lavoro per te. Gli animali domestici non sono autonomi, hanno bisogno dell’uomo. Si tratta di stabilire l’adeguato “compenso”, ma non è giusto definire sfruttamento QUALSIASI “uso” del cavallo, perché come in tutti i rapporti di scambio c’è un equilibrio: quanto vale il mio lavoro? Il principio di scambio è alla base dei rapporti umani, e non può che esserlo anche dei rapporti uomo-animale domestico: se tu vai a caccia, e procuri il cibo, io in cambio pulisco la casa e cucino. Allo stesso modo, tu mi fornisci un box fresco d’estate e caldo d’inverno, e io lavoro per te per quanto il mio essere cavallo mi permette: i conigli, le galline, i maiali danno la vita; i cavalli (alcuni di loro) saltano. Perché questo dovrebbe ledere la loro dignità? Lede la loro dignità essere maltrattati, non poter avere una vita sociale anche fra simili, essere iper sfruttati senza essere adeguatamente seguiti a livello medico e alimentare. Questo sì. Esattamente come per gli essere umani. Ma il lavoro come parte della loro vita non inficia affatto la loro dignità: fa parte della loro natura. E le pressioni, quelle fanno parte della vita e del lavoro di ognuno di noi. Ripeto, sempre nel rispetto dell’altro, poco importa se umano o animale domestico. Non giustifico tutto in questo modo, come non lo giustifico tra umani: tornando all’esempio di prima, tu vai a caccia, io lavo e cucino, ma se quando torni a casa ti diverti a darmi quattro schiaffi ledi la mia dignità. Allo stesso modo tu, cavallo, è giusto che lavori per quanto sei capace, non è giusto picchiarti o maltrattarti. Ovviamente tutto il discorso può essere esteso, possiamo definire dei limiti a questo rapporto lavorativo, e questi limiti possono anche variare nel corso della storia perché anche il sentimento morale si evolve, ma in NESSUN modo è corretto che questo interscambio non ci sia: perché nella estremizzazione a cui arrivi tu il cavallo è solo e in pericolo, e non è questo l’apice del suo benessere.
Parole lucide, che mi colpiscono ora come la prima volta che le ho lette. Come vedete, i temi toccati dalla mia amica sono, in sostanza, gli stessi che tratta Francesco nel brano sopra citato. E le conclusioni sono molto simili, se non coincidenti. Questo mi porta a fare alcune considerazioni.
A mio avviso, il fatto che il cavallo sia diventato un animale quasi esclusivamente domestico, che siamo cioè noi umani a tenere in vita una specie che, altrimenti – come molti studiosi sostengono – si sarebbe già estinta, non diminuisce in alcun modo la responsabilità che abbiamo nei confronti di questi animali. Anzi, al contrario: la aumenta. Essendo consapevoli della nostra condizione di “creatori” dei cavalli, visto che abbiamo anche prove circa il fatto che senza il nostro intervento non sarebbero più al mondo, o perlomeno non sarebbero affatto così numerosi, dovremmo preoccuparci enormemente delle condizioni in cui questi animali, una volta nati, vivranno, e di come si svilupperanno durante la loro esistenza futura.
A mio modo di vedere quindi, non dovremmo considerare i cavalli come nostri dipendenti, che paghiamo per darci “profitto”; né come nostri partner, con i quali instauriamo un rapporto paritario di scambio reciproco. Dovremmo invece pensare a loro come a dei figli, che mettiamo al mondo per dare – anche grazie a loro – una continuità al nostro essere, alla nostra anima. Dunque, ovviamente, come “genitori”, ne siamo direttamente responsabili.
Quello che sto dicendo è che dovremmo davvero – e non solo a chiacchiere – iniziare a capire che anche nei cavalli, come in tutti gli esseri viventi, è custodita un’ “anima” che aspira ad evolvere, progredire, e che può provare a farlo con noi uomini – e viceversa….; e, dunque, serve comportarsi di conseguenza, creando anche le condizioni e l’ambiente affinché questa evoluzione possa avvenire nel miglior modo possibile, per entrambi.
Non dovremmo quindi accontentarci di dove siamo arrivati oggi. Viceversa, dovremmo trovare il coraggio di abbandonare i vecchi schemi, ormai superati, di una visione esclusivamente competitiva e utilitaristica del rapporto uomo-cavallo – basata in larga parte sul concetto di scambio reciproco di utilità – per esplorare nuovi orizzonti, più adatti a questo scopo. Cosa che, d’altronde, e prima ancora, dovremmo cercare di realizzare anche per quanto riguarda il rapporto tra esseri umani.
Siamo in un’ epoca in cui non abbiamo più necessità di usare i cavalli per arare i campi, combattere guerre o per spostarci velocemente. Esattamente come accade agli esseri umani, il progresso tecnologico ha fatto sì che molti dei lavori svolti in passato dagli animali, possano oggi essere effettuati da macchine. Questo ci ha imposto, nel corso degli anni, di ripensare in senso evolutivo al ruolo che i cavalli potevano ancora assumere nella nostra società.
Ora, non mi pare proprio che l’utilizzo che oggi viene fatto del cavallo nello sport – così come il grande commercio che da esso deriva – possano considerarsi soddisfacenti da questo punto di vista! Come sapete, vi parlo non per sentito dire, ma per esperienza personale e diretta. Mi rendo conto che molti non conoscano a fondo le dinamiche che dominano il mondo dello sport, soprattutto ad alto livello, dinamiche molte volte nascoste da una maschera di “buonismo”, con la compiacenza delle istituzioni e degli addetti ai lavori (me compreso, fino a non molto tempo fa). Ma, credetemi, ciò che succede alla maggior parte dei cavalli sportivi non ha nulla a che fare con l’arte equestre di cui parla Vedani; e capita fin troppo spesso che la dignità di molti cavalli venga lesa e sacrificata in nome del successo personale e del profitto economico. Chi nega questo, a mio avviso lo fa solo in base a due opzioni: o non conosce lo sport di oggi – e i suoi retroscena – oppure è colluso con quel sistema patologico. Tertium non datur, non esiste una terza possibilità.
In conclusione, voglio dire a Francesco e alla mia amica che sono d’accordo con loro quando sostengono che il nostro più nobile compito sia oggi quello di riuscire a dare dignità al cavallo come compagno di avventura e di vita, qualunque sia l’attività in cui scegliamo di impegnarlo. E credo loro converranno con me quando dico che, come esseri umani, possiamo fare meglio di quanto non abbiamo fatto finora… molto meglio.
© Pietro Borgia; riproduzione riservata; in copertina: foto by EqIn