Drogato inconsapevole – Confessioni di un cavaliere fallito

28 giugno 2020
L’ultima volta ci siamo lasciati con l’intenzione di addentrarci nella “zona grigia” che si trova in mezzo a due visioni estreme, il bianco e il nero.
Prima di fare questo, vorrei però proporvi alcune riflessioni su un altro argomento, che alcuni di voi mi hanno suggerito nei giorni scorsi attraverso commenti e messaggi: l’equitazione come forma di dipendenza. A mio avviso si tratta di una questione molto importante e, allo stesso tempo, molto delicata. Dico questo perché, per mia esperienza personale, fa parte di quegli argomenti di cui la maggior parte delle persone preferisce non parlare affatto, considerandolo totalmente senza senso. Vi prego quindi di avere la pazienza di leggere questo articolo fino alla fine, con mente aperta e lasciando le eventuali critiche per il dopo lettura.
Come vi ho raccontato negli articoli precedenti, durante il periodo trascorso insieme ai cavalli ho sempre avvertito in me un forte conflitto etico nel praticare l’equitazione. La domanda che tutti i giorni mi ronzava in testa era: “Ma è giusto quello che faccio?”. Nel corso degli anni, ho cercato soluzioni a questo conflitto su un doppio livello: esterno ed interno. A livello esterno, ho cercato disperatamente un metodo, un approccio, un sistema di equitazione che attenuasse quel senso di ingiustizia che una parte di me sentiva così forte. A livello interno, ho elaborato alcune giustificazioni teoriche che placassero il mio malessere anche sul piano mentale.
Potreste chiedermi (e, in effetti, qualcuno lo ha fatto): “Ma perché, se sentivi un conflitto così grande, non hai semplicemente smesso di montare a cavallo? Non te l’ha mica ordinato il medico!”. A questa domanda rispondo in maniera molto semplice: perché c’era un’altra parte di me alla quale quello che facevo piaceva, piaceva tantissimo! Montare in groppa a un cavallo, galoppare in un prato, affrontare ostacoli e percorsi sempre più difficili… cosa può esserci di più bello?
Credo di poter dire che si fosse instaurata dentro di me una vera e propria dipendenza, di cui ho potuto rendermi conto solo dopo “aver smesso”: l’equitazione agiva per me esattamente come una droga. Posso immaginare che ad alcuni questa affermazione apparirà esagerata. Ma pensateci bene… Qual è la caratteristica principale di una droga, di una sostanza che crea dipendenza? Proprio il fatto che questa ci determina, ci controlla. Ne siamo, appunto, dipendenti: non possiamo farne a meno. Determina il nostro umore e da essa dipende la stragrande maggioranza delle nostre decisioni. Faremmo qualsiasi cosa per non dover smettere, per poterne avere sempre di più. E va da sé che, se viviamo una forte dipendenza, una parte di noi avverte come il male assoluto (qualcosa da cui difendersi con tutte le forze) qualsiasi cosa la minacci, rischiando di portarcela via. E quando, per qualsiasi motivo, ne siamo privati, subiamo gli effetti della crisi da astinenza.
Ecco, questo era proprio l’effetto che l’equitazione aveva su di me.
Il meccanismo appena descritto, per quella che è la mia storia, non vale solo per il montare a cavallo in sé, ma si estende ad una serie di fattori ulteriori. Voglio dire che ciò da cui ero dipendente era in primo luogo la pura sensazione fisica che dà il montare un cavallo: quella sensazione unica e indescrivibile, che solo chi ha provato può comprendere; un insieme di senso di libertà assoluta e controllo di una potenza sconfinata. Ma vi erano anche altri fattori di dipendenza che si aggiungevano a questo. Sto parlando, ad esempio, della dipendenza dalle gare, dai risultati sportivi, e dall’approvazione sociale che ne deriva. Tutte queste dipendenze messe insieme hanno rappresentato per me un mix esplosivo: maledettamente irresistibile e potenzialmente letale.
Recentemente ho conosciuto, attraverso i suoi libri, quello che è considerato uno dei più importanti Maestri spirituali del ‘900: Paramahansa Yogananda. Vorrei condividere con voi alcune sue parole – tratte dal libro “L’eterna ricerca dell’uomo” – a proposito di quelle che lui chiama “abitudini”.
“Tutte le preferenze e le usanze umane sono abitudini, acquisite casualmente in seguito a influenze ambientali”.
Il messaggio di Yogananda è chiaro: è quando una nostra abitudine ci controlla, quando è nostra padrona e noi ne siamo schiavi, che si crea una dipendenza.
“Le abitudini di bere, fumare, prendere troppo caffè o tè, l’abitudine dell’ira, dell’avidità, dell’invidia, della pigrizia, e dello scoraggiamento vengono di solito elette e poste in carica dalla forza numerica cumulativa di imprudenti orde di piccole azioni, compiute senza pensare minimamente all’effetto che avranno: ridurre in schiavitù. Le persone dedite a tali abitudini non sono nate con un ineluttabile sfortunato destino; in questa vita o in una vita passata, consciamente o inconsciamente, esse se ne sono rese schiave con la ripetizione costante di certe azioni. Il primo bicchiere non ha mai fatto un ubriacone, il primo atto di sensualità non ha mai fatto un libertino; la prima dose di narcotici non ha mai fatto un drogato. È stata una serie di ripetizioni meccaniche o sconsiderate di tali azioni sbagliate a eleggere al potere queste tiranniche abitudini”.
Tutti i nostri sforzi vanno dunque indirizzati verso un solo obiettivo: emanciparci dalla schiavitù delle nostre abitudini ed essere così finalmente liberi.
“Voi dovete fare uno sforzo per liberarvi gradatamente dalla schiavitù di qualsiasi abitudine, nell’abbigliamento, nell’alimentazione o in qualsiasi altro campo. Molte persone sentono di dover mangiare carne tre volte al giorno. Altre sono convinte di non dover mangiare altro che lattuga e noci e che, se variassero la loro dieta, si ammalerebbero! Tali credenze sono una forma di schiavitù. Non dovete lasciarvi soggiogare da alcuna abitudine di vita; siate capaci, invece, di cambiare le vostre abitudini secondo i dettami della saggezza. Imparate a vivere nel modo giusto, usando il vostro libero arbitrio guidato da saggezza. Siate capaci di dormire comodamente, una notte su un letto morbido e altrettanto comodamente sul pavimento la notte dopo. Questo divino distacco dalle abitudini è la libertà”.
Ora, per quelli di voi che ritengono queste parole assurde e prive di qualsiasi senso, che sono certi che ciò che hanno appena letto non li riguardi assolutamente, mi permetto una piccola provocazione: come vi siete sentiti nel periodo di quarantena, privati della possibilità di montare a cavallo?
© Pietro Borgia; riproduzione riservata; in copertina Borgia al lavoro archivio © A. Benna / EqIn